Siamo concepiti in connessione. Siamo completamente immersi nel tepore e nella sicurezza della connessione, dal momento in cui nostra madre ci porta in grembo. Non pensiamo nemmeno chi siamo, non ci poniamo il pensiero perché non siamo differenziati o separati da nulla. È in quel momento che ci troviamo il più vicino possibile a chi e a che cosa siamo davvero, ma non rientra tra i nostri pensieri. Col passare dei mesi, quando veniamo al mondo, da questa connessione primitiva facciamo esperienza di una precipitosa caduta dallo stato di grazia e iniziamo a sentirci differenziati e a veder il mondo attraverso lenti personali, lenti che ci fanno percepire che ci siamo noi, e qualsiasi altra cosa. In quel momento perdiamo la connessione. La solitudine è qualcosa che tutti gli abitanti di questo pianeta conoscono a un certo livello. Ne esistono due tipologie: la prima è quella che può esser risolta semplicemente con la compagnia di altre persone, è quello che proviamo quando ci sentiamo isolati e in compagnia delle persone giuste ci sentiamo improvvisamente un po’ meglio; l’altra tipologia è quella che non guarisce con la semplice presenza di altre persone ma è persistente, indipendentemente dalla presenza di altri e, tra gli esseri umani, crea la sofferenza maggiore, ci fa sentire completamente isolati dal mondo circostante. Questa solitudine è così pervasiva che potremmo chiamarla epidemia. L’anatomia di quest’ultima solitudine è costituita da tre parti: la separazione, la vergogna e la paura. La storia della separazione ha inizio molto prima della nascita, prima che assumiamo una forma fisica, è l’idea di un concetto di sé contro gli altri, ovviamente il concetto di sé, IO, è l’ego. La separazione è uno stato di frammentazione in cui un soggetto si percepisce separato dagli altri che lo circondano. Questa frammentazione non avviene solo esternamente, ma avviene anche a livello interiore creando una frattura dell’unità, un distacco da alcune parti di sé che vengono ostracizzate, rigettate, disconosciute e isolate. Ma la realtà è che non possiamo sradicare parti di noi, possiamo provare a rigettarle o negarle, ma rimangono connesse, sentiamo quello che provano e mentre viviamo questo processo di frammentazione suddividiamo noi stessi in parti interne a noi, ed esterne, isolandole e facendole sentire sole. In quel momento facciamo esperienza della solitudine.
La seconda parte della solitudine è la vergogna. Molte persone credono che la vergogna sia solo la reazione emotiva ad esperienze svalutanti che ci demoralizzano ma è molto più di questo. La vergogna è il meccanismo di frammentazione. Provate ad immaginare un’anemone di mare, se provate a darle un colpetto con un dito o un bastoncino quello che noterete è che immediatamente si ritrae e si chiude stringendosi su se stessa, una reazione primitiva che non richiede di essere pensata prima di venire agita. Ciò che molti non comprendono della vergogna è che è una reazione biologica e affettiva registrata nell’organismo, proprio come il meccanismo di lotta-fuga o come l’amore. Quando facciamo esperienza della vergogna è come se spingessimo noi stessi via da noi, in risposta a qualcosa che è successo all’esterno o a un pensiero che abbiamo formulato, ma la realtà è che non lo possiamo fare davvero. Come possiamo spingerci via da noi stessi? L’unico modo per raggiungere questo scopo è frammentare la coscienza, diventando internamente isolati da noi stessi. Come risultato percepiamo il secondo strato della vergogna, ovvero l’emozione vera e propria. Quell’emozione ci porta ad isolarci, facciamo con gli altri la stessa identica cosa che avviene dentro di noi, e questo avviene con l’evitamento diretto, diventando persone timide, oppure facendo l’esatto opposto, trasformandoci in esseri completamente inautentici che permettono agli altri di entrar in relazione esclusivamente con la farsa che mettiamo in scena e in entrambi i casi ci sentiamo isolati.
Il terzo elemento che costituisce la solitudine è la paura, aver paura di qualcosa è il contrario dell’amare. Amare qualcuno o qualcosa, è prenderlo come parte di te, mentre averne paura significa spingerlo via, non renderlo parte di te. Non è possibile spingere via qualcuno senza separarsi contemporaneamente da lui, più paura abbiamo, più ci sentiamo separati da qualsiasi cosa che ci circonda. La paura rappresenta l’esperienza di isolamento numero 1 su questo pianeta. La paura delle relazioni o delle altre persone serve semplicemente a separarci e a farci sentire soli, in termini di contatto umano. Rispetto alle relazioni abbiamo 4 paure fondamentali: l’abbandono, la disapprovazione, esser intrappolati nel dolore della relazione, e la perdita di noi stessi (invischiamento emotivo). Ciò che la maggior parte delle persone non sanno è che è impossibile aver paura di qualcosa che non si conosce, ciò significa che abbiamo paura di qualcosa di cui abbiamo avuto esperienza in precedenza e da cui siamo stati traumatizzati, qualcosa che ci crea un’angoscia che non riusciamo a superare. Sconfiggere la paura ed entrare in uno stato di connessione ha molto a che fare col risolvere le esperienze passate, accadimenti precedenti che hanno lasciato tracce dentro di noi, diversamente proiettiamo queste paure all’esterno verso ciò che non conosciamo.
La connessione può esser vista come un collegamento in cui percepiamo un link o un’associazione tra noi stessi e l’altro. Nello stato di unità ovviamente non possiamo sentirci connessi né tantomeno disconnessi perché siamo Uno, non avvertiamo la separazione e non sentiamo il bisogno di connessione. Ma la maggior parte di noi non vive in uno stato di unità, motivo per cui dobbiamo stabilire una connessione per ricostituire quello stato di unità. Nel momento in cui cerchiamo di creare una connessione genuina con qualcun altro quel legame dev’esser scelto consapevolmente e deliberatamente da entrambe le persone coinvolte in quella connessione. La connessione può esistere ad ogni livello della nostra esistenza, mentale, energetico, fisico, emotivo. Quando ci disconnettiamo rompiamo quel legame, ad un livello o a tutti i livelli. Dal momento che la connessione genuina rappresenta un legame con qualcuno che a sua volta ci ha scelto a livello consapevole e che non è stato costretto, dobbiamo focalizzarci sia sul creare quel link che sul mantenerlo. La felicità nelle nostre vite individuali e la nostra sopravvivenza come esseri umani dipendono dalla capacità che abbiamo di sviluppare connessione, perché la solitudine è un’epidemia dalle conseguenze devastanti.
Il dolore perenne che affligge la condizione umana è che camminiamo in questo mondo accanto a milioni di persone riuscendo comunque a sentirci soli, un po’ come morire di fame in un negozio di alimentari. Non so voi ma non riesco ad immaginare nulla di peggiore e le conseguenze non si riversano solo su noi stessi bensì sull’intero pianeta, perché quando la connessione è assente non percepiamo il dolore che provochiamo a qualcun altro come se avvenisse sulla nostra pelle, di conseguenza potremmo essere capaci di una distruzione senza confini. Questa è la ragione per cui per anni molti paesi sono stati completamente segregati, persone di colore rapite dalle loro famiglie, relegate a uno stato di schiavitù, messe al rogo, picchiate e impiccate. È la ragione per cui nel 1940 Auschwitz e altri campi di concentramento sono stati creati per contenere e sterminare gli Ebrei e altri segmenti della popolazione in opposizione al regime Nazista. La disconnessione è ciò che ha portato gli Stati Uniti a gettare una bomba nucleare su Hiroshima nel ’45, è il motivo per cui il regime di Pol Pot del ’79 ha eliminato il 21% dell’intera popolazione della Cambogia e attualmente, è la ragione per cui un uomo può allenarsi per anni con il singolo compito di strapparsi una bomba di dosso e farsi esplodere insieme ad essa in un attacco volto a creare terrore e distruzione verso chiunque abbia deciso che rappresenti il nemico.
Una delle cose più comuni presenti nei serial killer è il desiderio di trattenere le persone, che proviene dalla forma più estrema di solitudine di cui si possa fare esperienza, arrivano ad uccidere per trattenere a sé la persona. Sono soggetti che non guariranno mai in isolamento, anzi peggioreranno. In un mondo ideale, ciò di cui avrebbero bisogno sarebbe fare esperienza di una reale connessione con qualcuno che deliberatamente sceglie di esser in connessione con loro, per creare quella risorsa mancante interiore che la maggior parte di noi fortunatamente ha, cioè esser stati scegli consapevolmente da qualcuno, quella sarebbe un’esperienza che guarirebbe la ferita primitiva. Ovviamente nel momento in cui quel particolare bisogno viene soddisfatto non vi è più la necessità di uccidere ma questo molti non riescono a vederlo.
Ogni crimine commesso nel corso della storia parte dal presupposto che il colpevole si è sentito separato, disconnesso, e isolato dalla vittima. L’unico modo che abbiamo a disposizione per salvare la nostra specie e gli altri esseri viventi su questo pianeta, per interrompere la sofferenza umana, è creare un senso di connessione che metta la parola fine a questa epidemia di isolamento e solitudine. Questo processo ha primariamente il suo inizio e la sua fine dentro di te.
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